La fede può essere considerata il dramma dell'uomo. La fede porta l'uomo ad una esperienza drammatica. La scorsa settimana, la liturgia della diciannovesima domenica del tempo ordinario anno C ci ha proposto delle letture che ci inducono a riflettere sul dono della fede. Già, perché dobbiamo considerarla un dono di Dio ottenuto non per nostro merito, ma per la straordinaria gratuità dell'amore di Dio nei nostri confronti. Perché, quindi, considerarla un dramma? Partiamo dalla fede dell'Antico Testamento. Siamo ormai abituati a sentire il racconto della vita di Abramo. Sappiamo già come finisce la storia e cioè che Dio ferma la mano di Abramo che sta per immolare suo figlio, il figlio della promessa. Se, però, vivessimo la storia mettendoci nei panni di Abramo, vedremmo che il suo gesto è stato un atto straordinario di fede e abbandono alla volontà di Dio. Egli aveva accolto l'annuncio della nascita del suo figlio: ogni vita viene da Dio, nasce dal suo pensiero. Era il figlio che avrebbe dovuto generare una nazione intera. Dio è “il Santo”, Colui che non sbaglia mai. Abramo accoglie questo annuncio come una missione, credendo in Dio... e poi ecco che tutto si ribalta e gli domanda di sacrificare il proprio figlio, quello della promessa. Dio sta cominciando a contraddirsi. È accaduto al momento del peccato originale che ha trascinato l'umanità intera nel baratro della sofferenza e della morte. Il dubbio sulla credibilità di Dio si è insinuato nel cuore della donna, Eva, che comincia ad ascoltare la tentazione, a cadere in essa, fino a credere più ad essa che a Dio. Abramo soffre, non è detto che mentre Isacco porta la legna sul monte e gli domanda quale agnello avrebbero dovuto immolare, con la sua risposta volesse alludere al fatto che l'angelo avrebbe fermato la sua mano in tempo, prima che la tragedia si compisse. Dio, però, ferma la mano di Abramo e la sua promessa si compie. Nel nuovo testamento la fede va al di là di questo. Con la rivelazione del Figlio di Dio, il Messia, l'uomo deve sperimentare la morte. Ecco perché la fede è il dramma dell'uomo. Egli infatti non è esente da dubbi. Gesù stesso, comprendendo la sofferenza che avrebbe dovuto affrontare durante la passione, ha paura e domanda che si allontani il calice che avrebbe dovuto bere, la sofferenza. Poi, però, si abbandona a Dio Padre. Il momento tragico di ripresenta, al momento della crocifissione. Non muore tra i trasporti e la gioia, ma la croce fisica della crocifissione, gli annebbia la vista, il dolore influisce sul suo spirito che ancora una volta sospira, non avendo più parole sue: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”, parole tratte da un salmo. Nel momento della crocifissione, lui che ha rivelato il Padre stesso, stremato, usa le parole di un salmista per esprimere la sofferenza che lacera il suo cuore.
Ed ecco il punto focale del cristianesimo. Mentre Abramo viene fermato dall'angelo e Isacco non muore, Gesù, pur affidandosi al Padre ed essendo più perfetto di Abramo, deve giungere a dare la sua vita, a sperimentare la morte, non da vicino, ma proprio sulla pelle. La preghiera di Gesù che ha provato la sofferenza del dubbio, esprime nuovamente una condizione di abbandono alla volontà del Padre: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”.
Essere cristiani, perciò, non vuol dire non passare per la selva oscura del dubbio e della sofferenza, significa saper davvero sacrificare tutto, fino alla morte vera, per risorgere in un modo che noi ignoriamo, diverso, come accadde a Gesù, con una sola certezza nel cuore: affidare il proprio spirito al Padre che ci ama, al quale dobbiamo credere. I dubbi sono inevitabili: sbagliato è acconsentire ad essi. Vero è che il vero coraggio non è non aver paura, ma saperla superare. Quindi avere fede non significa non avere dubbi, ma saperli superare veramente e non a parole, anche quando moriamo seriamente sulla croce: quando vediamo morire i nostri ideali, la nostra vita spirituale, il nostro cammino.
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